Introduzione
1. Dictamen e giustizia in deroga presso una signoria cittadina tardomedievale: “petitioni”, “responsioni” e “repplicationi” nel Formulario per Astorre II Manfredi
Nella frammentarietà che caratterizza la situazione politica italiana nel secondo Quattrocento, un elemento di continuità è costituito dalla presenza più o meno stabile, presso i luoghi della decisione politica, di una classe di letterati dotata di un forte senso di autocoscienza e investita di un altissimo sentimento della propria missione civilizzatrice, che seppe orientare l’azione di governo, secondo modalità e risultati certo differenti, principalmente in quei momenti della vita pubblica nei quali era richiesto il dominio dell’arte della parola scritta e detta per rappresentare e conferire legittimazione e autorità al potere[1].
A lungo il paradigma interpretativo cui fare riferimento anche nell’indagine di momenti per così dire “periferici” di questo variamente declinabile rapporto tra letterati e potere è stato quello stabilito in relazione al cosiddetto “Umanesimo civile” fiorentino[2]. Ciò si spiega in parte tenendo conto del primato cronologico di quella esperienza. I più antichi illustrissimi propugnatori di quella nouvelle vague intellettuale alloggiarono infatti proprio presso gli scranni della cancelleria della città toscana, innovando linguaggi e forme dell’attività politica e imprimendo, non soltanto alle pratiche del potere – si pensi, per ricorrere a un esempio ben noto, alla riforma “libraria” promossa dagli allievi del Salutati, primo e più immediato riflesso “materiale” di quel recupero filologico dell’antico che fu al cuore di tale rivoluzione culturale –, indirizzi affatto originali e innovativi[3].
Più di recente, il rischio di banalizzazioni derivanti da una troppo deterministica e quasi esclusiva identificazione di processi dalla notevole complessità con gli accadimenti che interessarono la vita politica e culturale fiorentina sembra avere spinto gli studiosi a ripensare questo paradigma e a interrogarsi con maggiore sistematicità sulla natura affatto peculiare di possibili “umanesimi” alternativi. Penso principalmente alle indagini rivolte al cosiddetto “Umanesimo monarchico” aragonese, sviluppatosi presso la corte di Napoli a partire dall’opera dei funzionari regi Antonio Beccadelli e Giovanni Pontano, la cui influenza nel contesto italiano sta rivelandosi, col progredire delle ricerche, tutt’altro che marginale[4].
Tali indagini consentono di arricchire il panorama, a vantaggio degli studiosi che possono ora giovarsi di un più ricco armamentario di “ferri del mestiere” cui ricorrere anche nell’interpretazione di processi nei quali non risultino direttamente coinvolte le grandi istituzioni-produttrici di ideologie poco sopra menzionate. Infatti, al di là delle più raffinate elaborazioni sorte presso i grandi centri, e fatta la giusta tara tra le differenti personalità di volta in volta coinvolte, gli intellettuali del secondo Quattrocento, se direttamente chiamati a cooperare alla costruzione del consenso ideologico, seppero adattare la propria penna a un vasto arco di possibilità, contribuendo a rinnovare il linguaggio politico e a dotarlo di un forte potere legittimante in contesti talora anche molto diversi tra loro.
Venendo all’opera cui è dedicato il presente volume, essa esibisce, all’interno del quadro appena delineato, alcune peculiarità che sembrano dar vita a una declinazione per certi versi inedita nel contesto di quei processi di costruzione del consenso cui si è fatto cenno in precedenza. Nel Formulario di petitioni, responsioni e repplicationi per Astorre II Manfredi, signore di Faenza (d’ora in avanti FM), infatti, una raccolta composta in massima parte da petizioni, lettere di grazia e repliche dei supplicanti provenienti principalmente dalla cancelleria della piccola signoria cittadina retta dal dominus cui è dedicata[5], la costruzione dell’immagine del principe è messa in atto attraverso un complesso intreccio di livelli paralleli attinenti tanto alla concretezza dell’oggetto “libro” – dai materiali impiegati per la confezione, cioè, al complesso delle miniature, passando per la mise en page e le scelte grafiche adottate –, quanto ai processi di selectio e di dispositio che presiedono alla giustapposizione dei documenti di cui essa si compone, alla lingua volgare in cui risultano redatti, al genere testuale entro il quale sono calati, fino alla cura retorica di cui sono fatti oggetto e alla cui tradizione vengono direttamente ricondotti nella elegante dedicatoria di apertura:
E benché sia mancho elimata che si converia ale cose che dal exquisito vostro iuditio debbano essere provate […], son sforçatomi componerve questa operetta et descriverve como si debbia parlare o veramente scrivere a uno principe, a uno signore, o vere a uno summo pontifice, o qualunch’altra persona de che conditione se sia, ala quale vogliamo fare alcuna necessaria petitione overo impetrare alcuna gratia per si o per altrui, o fare alcuna [3r] recommandatione, o cum qualche degno exordio orare e persuadere ad altrui, o del recevuto benefitio rendere le degne gratie. Et, oltra ciò, come ditti signori o principi debbiano cum degno modo porgiere le sue risposte per dimonstrare essere in loro degna clementia et singular iustitia, e per fare i suoi subditi a sé benivoli et affectionati, onde possano aquistare fama, favore, exaltatione et gloria […][6].
Di seguito si illustreranno le strategie adottate dal compilatore della silloge al fine di veicolare, attraverso la raccolta di una tipologia documentaria cui viene riconosciuta qui l’essenza stessa del potere signorile, e alla quale è conferito, in virtù del rinnovato contesto del “libro” umanistico che la ospita, un inedito carattere di esemplarità, una ben precisa raffigurazione del principe: quella, cioè, del magnanimo reggitore dello stato, che si fa garante degli oppressi attraverso il ricorso alla giustizia in deroga da lui esercitata con sapienza e eloquenza all’interno dei confini del suo territorio[7]. È, infatti, proprio il saldo possesso dell’eloquenza – da intendersi, umanisticamente, nella duplice accezione di disciplina tecnico-formale e di sapienza etica – a guidarlo nella concessione, e, talvolta, nel rifiuto delle grazie, consentendogli di favorire concordia sociale e pace alle donne e agli uomini della comunità posta sotto il suo dominio, i quali, per tali ragioni, mostrano di accettarne di buon grado l’autorità.
Ed è forse qui la più interessante e, per certi versi, originale intuizione di Bartolomeo di Benincà da Ferrara, l’autore-collettore del FM[8]: nelle sue mani la lettera di grazia, uno strumento concreto di esercizio del governo signorile, viene innalzata al livello simbolico della rappresentazione, e quindi della celebrazione, del potere del principe.
2. Selectio, dispositio e struttura materiale nella costruzione della raccolta
Il FM è trasmesso da un unico testimone, il cod. 226 (già 272) della Biblioteca Universitaria di Bologna (d’ora in avanti B)[9], ed è opera, come si è detto, di Bartolomeo di Benincà, trattatista, maestro di scuola e miniatore ferrarese noto principalmente per una raccolta di modelli epistolari, simile al FM, stampata a Bologna nel 1485, il Formulario di epistole missive responsive[10].
Nel codice, le armi dei Manfredi ben in vista sulla carta incipitaria rivelano la coincidenza tra destinatario d’opera e destinatario d’esemplare, la qual cosa costituisce un indizio importante per attribuire a Bartolomeo anche la realizzazione del manufatto[11]. Il formulario appare dunque concepito dal suo artefice per confluire direttamente nella biblioteca del signore. Va però osservato che, in massima parte, i modelli raccolti al suo interno non sono frutto dell’ingegno di Bartolomeo, ma provengono probabilmente dalla cancelleria della cittadina retta dal signore cui l’opera è diretta. La sua cifra autoriale sarà pertanto da individuarsi principalmente nei modi attraverso i quali egli condusse tale operazione di raccolta e assemblaggio dei testi, oltre che di confezionamento del manufatto.
Dedicatario dell’opera, lo si è visto, è Astorre II Manfredi, membro della famiglia che aveva retto le sorti di Faenza sin dai primi decenni del XIV sec., e che aveva visto stabilizzarsi il proprio dominio sulla cittadina a partire dal 1379, anno in cui Astorre I aveva ottenuto da Urbano VI la nomina a vicario apostolico[12]. Tenuto conto del fatto che Astorre II morì nel 1468, e che una delle lettere contenute nel formulario è datata all’ottobre 1461[13], questi sono stati assunti in passato quali termini post e ante quem per la sua composizione[14].
Ritornando al Manfredi, va osservato che, a dispetto dell’immagine guerresca consegnataci dalle cronache, egli fu tutt’altro che insensibile ai valori della cultura, rivelandosi anche in grado di coglierne le valenze politiche[15]. Promosse un piano di fortificazione e abbellimento della cittadina[16], favorì la creazione di una biblioteca di corte[17], affiancò a sé, nella cancelleria, un umanista di buon livello quale fu Angelo Lapi[18], commissionò opere a importanti artisti quali Giovanni da Oriolo e Mino da Fiesole, pretese che suo figlio Galeotto studiasse a Ferrara con i maggiori umanisti dell’epoca[19]. Come il nonno Astorre I, del quale si conserva un sonetto a Franco Sacchetti[20], un capitolo morale[21] e una corrispondenza su temi di carattere letterario addirittura con Coluccio Salutati[22], Astorre II si misurò, oltre che con la spada, anche con la penna. Di lui, infatti, resta una raffinata epistola amorosa inviata a un’anonima nobildonna dal carcere delle Stinche, dove, intorno al 1440, si trovava prigioniero[23].
Sulla committenza del trattatello, e dunque sugli eventi che dovettero condurre Bartolomeo e Astorre a incrociare i propri passi, al momento non si possono che formulare delle ipotesi. Non sappiamo se a commissionare l’opera fu lo stesso Astorre, o se il libretto venne concepito come dono da presentare al signore. È tuttavia evidente che il progetto prese forma entro lo stretto giro del suo entourage, provenendo buona parte dei documenti raccolti nel FM, come si è visto, proprio dalla cancelleria della piccola cittadina romagnola. Dalla ricchissima documentazione d’archivio su Faenza schedata nel corso dei primi decenni dello scorso secolo da Giuseppe Rossini[24], in ogni caso, non emergono tracce del miniatore in quella città[25]. È tuttavia plausibile che a far pervenire a Bartolomeo la prestigiosa committenza sia stato un altro Bartolomeo, e cioè Bartolomeo Bolognini, ricchissimo cittadino bolognese proveniente da una famiglia di mercanti della seta di antiche origini lucchesi, il quale, come si ricava da un carteggio contenuto in un analogo formulario di epistole dedicato a un patrizio felsineo della famiglia Orsi (cod. Vat. Lat. 4612, Biblioteca Apostolica Vaticana, d’ora in avanti V)[26], opera ancora del Benincà, del miniatore fu amico personale e protettore – oltre che parente acquisito, risultando tra Giacomo Bolognini, fratello di Bartolomeo[27], e il trattatista ferrarese, un rapporto di comparatico.
Il Bolognini, dottore in ius civile e cavaliere[28], avvezzo agli ambienti della cancelleria – fu, nel corso della sua vita, podestà di Perugia[29] e di Cesena[30] –, svolse nella città retta da Astorre il compito di conduttore del sale[31]. Egli fu inoltre certamente intimo del principe di Faenza, avendone condotta al fonte battesimale la nipote Cia, figlia di Elisabetta Manfredi e Cecco III Ordelaffi, il 22 giugno 1459[32]. Per il già menzionato fratello del Bolognini, Giacomo, Bartolomeo di Benincà aveva inoltre già in precedenza realizzato un formulario, di cui resta una copia esemplata probabilmente dallo stesso ferrarese nel cod. Harley 4168, British Library di Londra, d’ora in avanti H[33].
Questo codice, e il già incontrato ms. V, esibiscono numerose consonanze realizzative col ms. B, tanto sul piano della confezione che su quello strettamente testuale[34]. I tre manoscritti sono infatti in pergamena, e risultano introdotti da altrettante epistole dedicatorie. Nelle carte incipitarie, il testo, trascritto su una singola colonna in elegante umanistica libraria, risulta inquadrato entro raffinate cornici decorate secondo gli stilemi della miniatura ferrarese dell’epoca. Ancora sulle carte incipitarie, in basso, al cento, campeggiano le armi dei destinatari/dedicatari. Le rubriche che introducono i componimenti sono vergate in rosso, variamente decorati i capilettera che aprono il testo dei modelli. Cura speciale è riservata ai capilettera delle epistole dedicatorie. Tra questi, spicca quello che apre la proemiale del ms. B, indirizzata «Ad illustrem dominum, dominum Astorgium de Manfredis, Faventie principem clementissimum». All’interno del riquadro che ospita la lettera iniziale della parola «Egli», composta, quest’ultima, da un nerboruto atleta di pelle scura «cui […] viene troncata la gamba a mo’ di reperto archeologico»[35], campeggia infatti l’elegante profilo di un guerriero all’antica[36]. Si tratta quasi certamente del ritratto di Astorre, la cui immagine, posta così in parallelo con quella degli antichi condottieri della romanità, viene a trovarsi proiettata sullo sfondo di una ideale continuità storica. Tale complesso apparato simbolico conferisce al libretto una speciale “enfasi monumentale”[37], e invita, anche visivamente, a un’interpretazione dell’opera che trasmette secondo le categorie culturali proprie dell’esperienza intellettuale umanistica.
Quanto all’articolata struttura fascicolare del manualetto, si può verificare come nella sua disomogeneità finisca per riflettersi la libertà dell’antologista di riassemblare i testi in corso d’opera, allo scopo di pervenire, attraverso la loro ordinata sequenza, a un risultato ben preciso. I singoli fascicoli, infatti, sembrano individuare segmenti di contenuto unitari, sicché i rari richiami fascicolari che si incontrano fanno la loro comparsa in quelle sezioni dell’opera che, risultando da una ispirazione compositiva unitaria, sembrano oltrepassare tale limite materiale.
Proponiamo dunque uno schema riassuntivo del contenuto del volumetto in relazione alla sua organizzazione fascicolare.
Il primo fascicolo, composto di quattro carte (cc. 1r-4v, nn. I-III), contiene la già vista dedicatoria al Manfredi, un’epistola proemiale indirizzata da «Bartolomio da Ferrara al libro suo», e una orazione rivolta da un condottiero – dietro il quale non sarà difficile riconoscere un’immagine del destinatario – ai propri uomini in armi, spronati, questi, a emulare le gesta degli antichi soldati romani[38]. Tale richiamo alle virtù guerresche degli antichi, collocato strategicamente in posizione esordiale, accorda il tono antiquario dell’operetta, orientando così l’interpretazione dell’insieme.
Di sei carte è ancora il secondo fascicolo (cc. 5r-10v, nn. IV-XI), contenente alcune epistole sul tema umanistico del banchetto, due lettere di grazia (indicate nel libretto alternativamente come “resposte” o “responsioni”) e altrettante di ringraziamento (“repplicationi” o “rengratiationi”) per il buon esito delle suppliche (“petitioni”, nella terminologia onnicomprensiva utilizzata da Miniatore; “supplicante”, “petitore”, “petente” è invece variamente chiamato nella raccolta colui che inoltra la domanda di grazia), e un’orazione al doge di Venezia in occasione della sua elezione.
Dei fascicoli 3-4-5, composti rispettivamente da otto, due e sei carte (con richiami tra il terzo e il quarto e tra il quarto e quinto), è formata quella che si direbbe la terza sezione del volume (cc. 11r-26v, nn. XII-XXVIII), con la quale si entra nel vivo dell’operetta. I tre fascicoli trasmettono cinque suppliche con altrettante risposte, quattro delle quali del signore di Faenza (nn. XII-XXI), e, in chiusura, una sezione compatta di esordi di epistole e orazioni al papa (nn. XXII-XXIV, XXVIII-XXIX) e una supplica al pontefice con risposta dello stesso e replica del petitore (nn. XXV-XXVII).
Dei fascicoli 6-7-8, composti i primi due da otto, il terzo da dieci carte, consta la quarta e più corposa sezione del formulario (cc. 27r-52v, nn. XXIX-LVI), con richiami tra il sesto e il settimo e il settimo e l’ottavo, e con segnatura a registro a partire dal numero sei, marcato con la lettera a (b e c sono invece contrassegnati gli altri due fascicoli, il che lascia supporre per questa sezione una sua originaria destinazione incipitaria). Contengono dodici suppliche con relative risposte, con variazione di schema, però, rispetto al modello supplica-lettera di grazia offerto nel fascicolo precedente, in quanto ora, in dieci casi, alla risposta segue una replica del supplicante, cosa che dà vita a nuclei epistolari composti di tre elementi ciascuno. Tale schema risulta valido per i gruppi di modelli XXIX-XXXI, XXXII-XXXIV, XXXV-XXXVII, XL-XLII, XLV-XLVII, XLVIII-L (supplica al signore di Faenza), LI-LIII, LIV-LVI (supplica al signore di Faenza); le rimanenti coppie, vale a dire quelle composte dai nn. XXXVIII-XXXIX (supplica al signore di Mantova), e XLIII-XLIV, sono invece prive, appunto, della replica del supplicante.
Il nono fascicolo è, come l’ottavo, un quinterno (cc. 53r-62v, nn. LVII-LXXIV). Vi si inaugura una tipologia testuale fino a questo momento inedita: quella, cioè, degli esordi epistolari, genere nel quale Miniatore, nei due formulari bolognesi di cui si è discusso, si era dimostrato già in precedenza particolarmente versato. Nel complesso, però, l’organizzazione dell’insieme appare meno rigida rispetto ai fascicoli precedenti: Bartolomeo, infatti, mostra di sfruttare gli spazi finali del volume anche per aggregare alla raccolta, con finalità evidentemente autopromozionali, una sua lettera, e una di sua moglie Orsolina, indirizzate a Borso d’Este (nn. LXVIII-LXIX)[39]. Sono esordi i modd. LVII-LXI, LXV, LXVI, LXXIV, ultimo componimento del fascicolo; suppliche, invece, i modd. LXII-LXIV, LXXI e LXXIII; epistole di altra natura, infine, le nn. LXVII, LXX (datata 1461) e LXXII.
Dei fascicoli 10-11-12, formati rispettivamente da 4, 2 e 3 carte (ne manca una in fine), con richiami tra il decimo e l’undicesimo e tra il dodicesimo e il tredicesimo (cc. 63r-71v, nn. LXXV-LXXXIV), è composta, infine, la sezione conclusiva dell’opera. Trasmette due suppliche con risposta del signore e replica del petitore: nn. LXXV-LXXVII (al signore di Faenza), e LXVIII-LXXX; tre esordi: LXXXI-LXXXIII; e una lunga epistola amatoria in chiusura, genere che, come si è visto, certamente doveva stare a cuore ad Astorre.
La sintesi appena esposta consente dunque di seguire il peculiare metodo di lavoro adottato da Miniatore nella composizione materiale della sua raccolta. Egli trascrive e decora, cioè, per sezioni singole di ampiezza variabile in base al loro contenuto. Le due sezioni mediane, composte di tre fascicoli ciascuna e destinate dal trattatista alle suppliche, ne costituiscono il nucleo principale. Esse, infatti, accolgono ben 45 degli 84 componimenti ospitati dall’intera silloge (55 in totale quelli incentrati sul genere della supplica), occupando 57 delle sue 71 carte complessive.
3. Il sistema delle suppliche all'interno del FM
Attraverso l’ordinato avvicendarsi di petizioni, “responsioni” e repliche dei petitori, Miniatore tratteggia il profilo di una signoria pacificata, nella quale sussiste un patto tra principe e sudditi a garanzia del quale è posta l’eloquenza del signore. Dimostrando infatti, grazie alle degne risposte con le quali soddisfa la domanda di giustizia dei propri sottoposti, essere in lui, per ricorrere alle parole dello stesso Bartolomeo, degna clementia et singular iustitia, il principe può rendere i suoi subditi a sé benivoli et affectionati, acquistando così fama, favore, exaltatione et gloria[40]. Il libretto va quindi dritto al cuore dell’esercizio della sovranità manfrediana, rivelando un potenziale propagandistico spendibile sia dentro che fuori le mura cittadine. L’immagine di equilibrio sociale e istituzionale che esso veicolava consentiva infatti di sottrarre un argomento a chi, volendo far leva sul supposto dispotismo del sovrano tiranno, avesse inteso discuterne l’autorità o giustificare attacchi al suo dominio sotto il vessillo del liberatore degli oppressi[41]. Sul fronte interno, l’operetta consentiva di ribadire la supremazia del signore, sapiente e fine reggitore dello stato al pari degli eloquenti e magnanimi principi dell’antichità, su statuti, ordini e consigli cittadini, e di manifestare la sua clemenza verso chi si fosse dimostrato fedele.
Sul rapporto con gli apparati di governo in particolare sarà forse utile qui soffermarsi brevemente, richiamando un minuto ma significativo episodio della cronaca cittadina che potrà aiutare a chiarire alcune delle motivazioni che poterono avere stimolato la realizzazione della raccolta. In realtà, il fatto segue di qualche anno la morte di Astorre, ma ciò è tanto più significativo in quanto indice della persistenza di radicate e irrisolte tensioni istituzionali all’interno della vita civile della piccola comunità romagnola.
Nella cronaca seicentesca realizzata dal notaio faentino Bernardo Azzurrini si leggono le vicende che portarono Misserino Bertoni, padre del beato Filippo, a ottenere dal governo cittadino la perpetua esenzione «omnibus oneribus, collectis et angariis»[42]. L’uomo, afflitto da precarie condizioni economiche e gravato da numerosa prole, si era rivolto al consiglio cittadino perché accogliesse la sua istanza,
maxime etiam cum illustrissimus dominus noster d. Galeottus de Manfredis Faventinus [il figlio, cioè, di Astorre, e signore di Faenza in quel frangente] per eius graziosum rescriptum inmunitatis eiusdem libentissime concessit.
Il quale consiglio, non senza l’imbarazzo del priore, che avrebbe preferito una regolare deliberazione per fabas, approvò per acclamazione la richiesta.
L’episodio è chiamato in causa dagli storici per sottolineare come, all’interno del governo cittadino, persistesse una non risolta ripartizione di competenze tra il signore e il Consiglio Generale, che arrogava infatti a sé prerogative in materia di finanza pubblica[43]. E, in effetti, mancano a ben vedere nel FM suppliche riconducibili a questo ambito, mentre pienamente ribadita risulta l’autonomia decisionale del dominus in materia civile e criminale, cosa che pare dunque confermare quanto già sottolineato dagli storici a partire dai fatti appena ricordati.
Più nel dettaglio, nel FM l’intervento diretto del princeps è evocato per dirimere controversie di natura fondiaria (XIV; nel caso specifico, il supplicante chiede soccorso al signore di Faenza in quanto privo sia di mezzi per pagare un avvocato che di prove sufficienti per vincere la causa); intercedere «sencia litigio e dilatation di tempo»[44] per la restituzione di un debito attraverso il ricorso alla procedura sommaria, consentendo la rapida risoluzione di una causa e la conseguente libera ripresa dei commerci (XVI, al signore di Faenza[45]; XVIII, al signore di Faenza; LXXV, al signore di Faenza; LXXVIII); richiedere la liberazione di un condannato dal carcere, dalla pena dell’esilio o dalla pena capitale, in conseguenza di reato non specificato (XXXII, XL), di possesso illegale di armi (XXIX), di fellonia (XXXV), di omicidio, adducendo, in quest’ultimo caso, la motivazione della legittima difesa (XLVIII, al signore di Faenza; LI)[46].
Sul piano della costruzione argomentativa delle suppliche, decisivo si rivela il rapporto di fede e di amicizia personale col signore, sul quale infatti i supplicanti mostrano sistematicamente di fare leva[47]. Spesso, chiamata in causa è anche una particolare condizione di indigenza, dalla quale il petitore afferma non potersi sollevare senza il soccorso e la liberalità del dominus[48]. Attorno a questi due perni ruota la costruzione di gran parte dei modelli contenuti nel FM, svolgendo così una funzione determinante nella strutturazione retorica della supplica.
Tornando allo spettro di intervento entro il quale si esplica il potere derogativo e grazioso del signore, andranno ancora sottolineate alcune consonanze con quanto segnalato in altre situazioni italiane anche distanti nel tempo rispetto al FM. Studiando i registri e i decreti della signoria bolognese retta dal giurista Taddeo Pepoli – si ricordi, per inciso, che bolognesi erano sia il probabile committente del FM, che i podestà cittadini negli anni in cui quasi certamente fu realizzato –, Massimo Vallerani ha ad esempio potuto individuare, tra diverse tipologie di suppliche, quelle «giudiziarie che chiedono la riduzione della pena e l’uscita dal bando», o ancora quelle nelle quali si domanda la «concessione della procedura sommaria come mezzo per superare le impasse di liti processuali, specialmente intrafamiliari»[49]. Ancora con le suppliche registrate dalla cancelleria e dalle magistrature del dominio sforzesco nella seconda metà del Quattrocento – grosso modo contemporanee, dunque, a quelle contenute nel nostro formulario –, attentamente studiate da Nadia Covini, possono intravedersi numerose affinità sul piano delle motivazioni che inducono i sudditi a inoltrare richieste di tale natura[50].
Inedita si rivela, invece – almeno in relazione ai casi maggiormente indagati –, l’esplicita annessione di un documento di carattere amministrativo emanato da una cancelleria signorile all’interno di un territorio in diretta relazione con la tradizione dittaminale[51]. Innovativa appare inoltre la riformulazione in senso umanistico dell’esercizio della giustizia in deroga, attuata nel FM anzitutto attraverso una raffinata strategia di costruzione dell’immagine del principe basata sulla sovrapposizione, in una medesima personalità, delle figure del sovrano e dell’oratore. Eloquenza e sapienza caratterizzano infatti gli eleganti rescritti con i quali il principe può amministrare rettamente la giustizia e salvaguardare la conciliazione sociale all’interno dei confini sottoposti al suo dominio[52].
Altrettanto degno di attenzione pare ancora il fatto che di tale soggezione a una regola stilistica sia investita anche la supplica stessa, quasi che, con quella operazione, si stesse puntando anche alla normazione di tale tipologia documentaria. L’eleganza si rivelava infatti indispensabile perché la supplica potesse aspirare a un esito favorevole. Lo si evince dalla irata reazione del signore alla maldestra petitione di un tale, il quale, lamentando l’usurpazione di un suo terreno, costruisce il proprio discorso non sull’ordinata esposizione delle motivazioni per le quali il giudicante avrebbe dovuto tendere a una risoluzione in suo favore, ma sull’attacco personale verso il proprio avversario:
Gran conforto e singular soccorso – scrive il supplicante – è, magnifico Signore, a coloro che non hano peritia né limata eloquentia nel suo dire, quando alcuna sua causa se ritrova essere posta nelle mano d’alcuna persona pratica e docta come è la vostra magnifica Signoria, la quale subito cognosce li errori e scorge la malignità deli homini li quali sono senza discretione o timor de Dio. Come è ser Marco, mio adversario, il qual, credendosi per alquante lettere che lui ha, che son ben poche e grossamente imparate, ch’el non sia homo sì eloquente che li possa resistere, né che a sue ficte e malitiose parole sappia rispondere. Le quale non son però di tale effetto quale a tanto huomo se convegneriano qua‹n›to lui se extima e dimostra essere per li sfogiati ornamenti d’i suo’ panni e dele lunghe e foderate pelande che lui porta, le quale forsi anchora non son pagate, come più volte se è sentito querele del mercatante e del sartore haver fatte di lui. Et s’el non fosse, Signor mio, ch’io cognosco la Signoria vostra haver de ciò optima experientia e perfecto vedere da conoscer le cose iuste e le inique, io remaria molto sconsolato e quasi desperato d’una certa mia causa ch’io ho cum lui, et maxime non me ritrovando cum quella peritia et ornamento de dire che se rechederebbe dinanci al conspetto dela magnifica Signoria vostra, la qual continuamente è usata de udire excellenti homini e dotati de singulare ingegno, ala quale io grandemente me racommando. E priego quella se degni voler cognoscere la arrogantia e malignitade di questo huomo, il quale per dovermi usurpare una certa mia povera possessione dela quale io vivo, e che molti anni ho posseduta per vigore d’un testamento de mio avolo, del quale per successione son rimaso herede[53].
Alle argomentazioni così maldestramente esposte segue quindi l’indispettita risposta del principe:
Assai manifestamente comprehendo per lo vostro lungo parlare, carissimo mio, quanto l’animo vostro sia al presente appassionato e maldisposto in verso la persona de ser Marco, adversario vostro, del qual parlate molto sinestramente, e fate d’i suoi facti una lunga e simulata hystoria, la quale al mio parere poco achade al presente al proposito dela vostra causa e dela differentia che havete cum lui, la qual forsi havete lasciata adrieto per fare al vostro lungo dire più bella coda, o forsi è stato per poca memoria. Ma lui è ben, come voi dite, un bel dicitore, e sa commodamente compore sue parole, e a quisti dì mi narrò tutta questa vostra facenda cum bel modo e più riposado che non haveti facto voi, senza far mentione alchuna d’i vostri costumi o de vostra vita, come voi fate dela sua, ma honestamente me disse il fatto suo, e mostròmi alcune scripture autentiche e bone, le quale pareno molto contrarie ala vostra intentione. Und’io non ho al presente a iudicare alcun suo mancamento o sua conscientia, né a riguardare se lui porta le veste non pagate, o se cerca cum sue belle parole farsi tenir valente e grande tra la gente, imperoché infino a qui non ho havuto querella alcuna di lui se non da voi. Il quale, se non haveti altro modo che questo, o altra via da diffendere la causa vostra, o mostrare qualche più efficace rasone contra la dimanda sua, io dubito che non perdiati la questione, imperoch’io per mi non potrei fare a vostra instantia ordini o statuti novi che havesseno a satisfare al bisogno vostro e fusseno in preiuditio altrui[54].
Ponendo in parallelo, con questo breve carteggio, le due opposte strategie difensive – quella, cioè, del rozzo supplicante che, infangando l’avversario, introduce nella causa un pericoloso elemento di discordia sociale, e quella dell’eloquente ser Marco, il quale, esponendo le proprie ragioni ordinatamente e allegando prove autentiche, costruisce la propria difesa sui fatti tenendo fuori tutto quanto non pertinente al contenzioso – l’autore-collettore della raccolta restituisce, attraverso l’ausilio dell’autorevole mediazione del Manfredi, un esempio chiaro del rapporto armonico e virtuoso che si istaura tra verità e forma quando retorica e sapienza si sorreggono vicendevolmente. La malizia del supplicante, infatti, emerge in tutta la sua dirompente carica di pericolosità sociale proprio in quello spazio che si schiude tra il contenuto di verità della sua richiesta, la disarmonia delle parole che quella falsa verità riflettono, e il consapevole e autorevole diniego del signore che ne censura aspramente il comportamento verbale. L’esempio pare dunque bene illustrare il senso di una operazione tesa a formalizzare una tipologia documentaria – quella, cioè, che fa capo al cosiddetto ‘sistema delle suppliche’ – attraverso la precisa definizione di modi e forme con cui regolare virtuosamente la comunicazione politica tra sudditi e signore. In tal senso, dietro l’opera si può anche scorgere una sorta di celebrazione dell’avvenuta realizzazione di una simbiosi organicistica tra le parti sociali attraverso gli strumenti dell’esercizio concreto del potere. La raffinata strategia di rappresentazione ideologica che investe tale simbiosi tanto sul piano materiale del volume che le dà forma, quanto su quello propriamente contenutistico che la racconta, propizia la metamorfosi del formulario, uno strumento d’uso quotidiano impiegato nella gestione dell’ordinaria amministrazione pubblica, in raffinato oggetto di lusso da conservare con cura, favorendone così il passaggio dai disordinati banchi della cancelleria alla elegante biblioteca signorile, simbolo tra i più importanti della consolidata autorità del principe.
Note
[1] Il tema del rapporto tra umanisti e potere in questo frangente della storia italiana è tanto vasto da precludere ogni possibile ambizione di esaustività bibliografica. Per la prospettiva adottata, tesa all' indagine di alcuni tópoi e concetti fondamentali a partire dai testi della tradizione teorico-politica, può essere utile in questa sede ricordare lo studio di sintesi di G. Cappelli, Sapere e potere. L’umanista e il principe nell’Italia del Quattrocento, «Cuadernos de Filología Italiana», 15 (2008), pp. 73-91. Tra i lavori più recenti andrà invece almeno menzionata la raccolta di studi L’Humanisme au pouvoir? Figures de chanceliers dans l’Europe de la Renaissance, cur. D. Crouzet, E. Crouzet-Pavan, L. Petris, C. Revest, Paris 2020, anche per la bibliografia richiamata.
[2] Anche in questo caso limitiamo i rimandi al volume che, si può dire, essere all’origine stessa del dibattito su tale paradigma storiografico, vale a dire H. Baron, The Crisis of Early Italian Renaissance: Civic Humanism and Republican Liberty in an Age of Classicism and Tyranny, Princeton 1960.
[3] Cfr. E. Garin, I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina da Coluccio Salutati a Bartolomeo della Scala, «Rivista storica italiana», 71 (1959), pp. 185-208; A. Bartoli Langeli, Cancellierato e produzione epistolare, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 251-261. Sul libro umanistico e sulla riforma grafica quattrocentesca si veda la panoramica proposta in S. Zamponi, La scrittura umanistica, «Archiv für Diplomatik», 50 (2004), pp. 467-505.
[4] Sulla questione si rinvia a F. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’Umanesimo monarchico. Ideologia e strategie di legittimazione alla corte aragonese di Napoli, Roma 2015; G. Cappelli, Maiestas. Politica e pensiero politico nella Napoli aragonese (1443-1503), Roma 2016; F. Delle Donne, G. Cappelli, Nel Regno delle lettere. Umanesimo e politica nel Mezzogiorno aragonese, Roma 2021.
[5] Sulla carenza di ricerche specifiche sull’archivistica e diplomatica manfrediana, imputabile principalmente alla perdita della documentazione cfr. M. Mazzotti, Spunti di ricerca sui documenti manfrediani del XV sec. Con appendice documentaria, «Manfrediana. Bollettino della Biblioteca Comunale di Faenza», 33/34 (1999-2000), pp. 79-94: 79. A tutt’oggi non disponiamo ancora di lavori puntuali sulla diffusione, la terminologia, le caratteristiche diplomatistiche di documenti emanati dagli uffici della piccola signoria simili a quelli di cui resta testimonianza nel FM. Per tale ragione, ci riferiremo a essi attraverso la nomenclatura, spesso onnicomprensiva o incoerente, impiegata da Miniatore nella raccolta, sovrapponendo talvolta a essa, per ragioni di perspicuità, quella maggiormente accreditata in studi recenti, consci della mutevolezza che essa può assumere in epoche e cancellerie differenti. Per una panoramica sul genere della supplica si rinvia alla raccolta di saggi riuniti in Suppliche e “gravamina”. Politica, amministrazione, giustizia in Europa (secoli XIV-XVIII), cur. C. Nubola, A. Würgler, Bologna 2002. Sull’argomento si vedano ancora M. Vallerani, La supplica al signore e il potere della misericordia. Bologna, 1337-1347, «Quaderni Storici», 44, 131 (2) n. s. (2009), pp. 411-441; Id., L’arbitrio negli statuti quattrocenteschi, in Tecniche di potere nel tardo medioevo. Regimi comunali e signorie in Italia, cur. M. Vallerani, Roma 2010, pp. 117-147; Id., Paradigmi dell’eccezione nel tardo medioevo, «Storia del pensiero politico», 2 (2012), pp. 185-211; N. Covini, Scrivere al principe. Il carteggio interno sforzesco e la storia documentaria delle istituzioni, «Reti Medievali», 9 (2008), pp. 1-32; Ead., “De gratia speciali”. Sperimentazioni documentarie e pratiche di potere tra i Visconti e gli Sforza, in Tecniche di potere cit., pp. 183-206; I. Lazzarini, L’ordine delle scritture. Il linguaggio documentario del potere nell’Italia medievale, Roma 2021, pp. 140-148.
[6] FM I.3-4.
[7] Il dibattito relativo a queste due virtù e alle reciproche implicazioni nel contesto della vita politica era stato riportato in auge negli ambienti intellettuali umanistici dalla riscoperta, avvenuta nel 1421, del De oratore ciceroniano. In particolare, in de orat. 1, 30-34, si celebrava per bocca di Licinio Crasso l’eloquenza come la forza civilizzatrice che aveva permesso all’umanità di superare la sua originaria condizione animale, riunendolo nella vita associata. L’eloquenza aveva inoltre reso possibile la codificazione delle leggi e dei diritti, favorendo in questo modo la conciliazione sociale. Pertanto, da essa dipendeva la salus dei singoli cittadini come dell’intera collettività. Sull’argomento riflessioni utili in E. Narducci, Introduzione a Cicerone, Dell’oratore, Milano, 2009, p. 27. Attraverso la celebre riflessione introduttiva della Rhetorica vetus, ben nota agli uomini del Medioevo, il tema non doveva risultare, per la verità, del tutto inedito: «Saepe et multum hoc mecum cogitavi, bonine an mali plus attulerit hominibus et civitatibus copia dicendi ac summum eloquentiae studium. Nam cum et nostrae rei publicae detrimenta considero et maximarum civitatum veteres animo calamitates colligo, non minimam video per disertissimos homines invectam partem incommodorum; cum autem res ab nostrā memoriā propter vetustatem remotas ex litterarum monumentis repetere instituo, multas urbes constitutas, plurima bella restincta, firmissimas societates, sanctissimas amicitias intellego cum animi ratione tum facilius eloquentiā comparatas. Ac me quidem diu cogitantem ratio ipsa in hanc potissimum sententiam ducit, ut existimem sapientiam sine eloquentiā parum prodesse civitatibus, eloquentiam vero sine sapientiā nimium obesse plerumque, prodesse numquam. Quare si quis, omissis rectissimis atque honestissimis studiis rationis et officii, consumit omnem operam in exercitatione dicendi, is inutilis sibi, perniciosus patriae civis alitur; qui vero ita sese armat eloquentiā, ut non oppugnare commoda patriae, sed pro his propugnare possit, is mihi vir et suis et publicis rationibus utilissimus atque amicissimus civis fore videtur» (Inv., 1, 1; utile è l’edizione curata da M. Greco, Galatina 1998, p. 74, corredata di traduzione e note, p. 74). Sulla questione si vedano anche J. E. Seigel, Rhetoric and Philosophy in Renaissance humanism: The Union of Eloquence and Wisdom, Petrarch to Valla, Princeton 1968; M. Marassi, Eloquenza e Sapienza in Leonardo Bruni. Analisi introduttiva alla conoscenza morale, «Studi Umanistici Piceni», 28 (2008), pp. 117-129; A. Battistini - E. Raimondi, Le figure della retorica: una storia letteraria italiana, Torino 1990, p. 75; G. Cappelli, Sapere e potere cit., pp. 77-83.
[8] Della vita di Bartolomeo di Benincà da Ferrara (Ferrara, 1420 ca. – ?, ante 16 settembre 1485), poche sono le notizie, ricavabili per lo più da alcuni documenti d’archivio e dalle rare informazioni da lui stesso lasciateci nelle sue raccolte. Si sa che fu miniatore, maestro di scuola, trattatista, scrivano, attivo principalmente tra Ferrara, Bologna e Venezia, ma nulla ci è noto sugli anni e sulle modalità della sua formazione culturale. Nella città bentivolesca, grazie anche alla sua professione di artefice del manoscritto, fu vicino agli ambienti dello Studium. Ancora a Bologna, strinse relazioni con personaggi prossimi alle cerchie antibentivolesche. Fu sposato con una Orsolina, anch’essa abile epistolografa, figlia di un banditore ferrarese di nome Pietro Giovanni, dalla quale ebbe almeno tre figli, Borsia, Cornelia e Giovanni Battista. Di lui restano, oltre all’opera oggetto di questo studio, diversi formulari manoscritti e a stampa, sui quali si discuterà diffusamente infra. Per ulteriori dettagli sulla vita di Bartolomeo sia consentito il rimando a C. Amendola, Le “artes dictandi” di Bartolomeo Miniatore da Ferrara e l’Umanesimo volgare. Con l’edizione del “Formulario di esordi ed epistole per Giacomo Bolognini”, Tesi di Dottorato in Storia, Culture e Saperi dell’Europa Mediterranea dall’Antichità all’Età contemporanea, Università della Basilicata, XXXIV ciclo, 2022, pp. IX-XXX.
[9] Per una descrizione del codice si rinvia alla Nota al testo della presente edizione.
[10] B. Miniatore, Formulario di epistole missive e responsive, Bologna, Ugo Rugerius, 20 Apr. 1485 (ISTC im00580300). Nell’arco cronologico che va dal 1485 al 1584, ben 73 le edizioni dell’opera censite in M. C. Acocella, Il “Formulario di epistole missive e responsive” di Bartolomeo Miniatore: un secolo di fortuna editoriale, «La Bibliofilía» 113 (2011), pp. 257-291: 278-291. A dispetto del successo e della diffusione dell’operetta (innumerevoli gli esemplari conservati nelle biblioteche di tutto il mondo), la cui paternità è contesa a Bartolomeo Miniatore, in realtà senza fondamento, da Cristoforo Landino, cui risultano infatti intestate molte delle stampe registrate dalla Acocella, essa non sembra aver attratto particolarmente la curiosità degli studiosi. Poche altre, infatti, le indagini ad esso dedicate, oltre allo studio appena ricordato. Tra quelle che protendono per un’attribuzione dell’opera a Bartolomeo andranno ricordate: A. Quondam, Dal «formulario» al «formulario»: cento anni di «libri di lettere», in “Le carte messaggiere”. Retorica e modelli di comunicazione epistolare per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, cur. A. Quondam, Roma 1981, pp. 13-156; T. Matarrese, Il volgare a Ferrara tra corte e cancelleria, «Rivista della letteratura italiana», 8 (1990), pp. 515-560; D. Guernelli, Qualche nota sulla miniatura bolognese del terzo quarto del Quattrocento, «Il Carrobbio», 35 (2009), pp. 61-91; P. Procaccioli, Bartolomeo Miniatore, Cristoforo Landino e la preistoria del Formulario di lettere. Una traccia vaticana, in “Cum fide amicitia”. Per Rossana Alhaique Pettinelli, cur. S. Benedetti, F. Lucioli, P. P. Pellegrino, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 437-450; X. Espluga, Per gli anni bolognesi di Felice Feliciano, «Atti e memorie. Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 67 (2017/2019), pp. 182-218: 208-209; C. Amendola, Felice Feliciano epistolografo. Sondaggi sul codice Canon Ital. 15 della Bodleian library di Oxford (e ipotesi per una cronologia degli epistolari), «Critica letteraria», 45 (2018), pp. 9-48: 33-34. La considerano, invece, del Landino, M. Santoro, Cristoforo Landino e il volgare, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 131 (1953), pp. 533-547; R. Cardini, La critica del Landino, Firenze 1973. In un lavoro di prossima pubblicazione nel quale viene esaminata l’intera produzione manualistica di Miniatore si è potuta confutare definitivamente l’attribuzione dell’opera al Landino.
[11] Non si vede, infatti, come un codice contenente un’opera realizzata per un destinatario che è il medesimo dell’esemplare stesso, da un trattatista, copista e miniatore di professione, possa essere poi fatto vergare e decorare da altri che non dall’autore del suo contenuto. Sulla questione dell’autografia dei formulari attribuibili a Miniatore sia consentito il rimando a C. Amendola, Note sui formulari manoscritti e a stampa di Bartolomeo di Benincà da Ferrara, «Spolia. Journal of Medieval Studies», n. s. 8 (2022), pp. 1-26: 5 e n. 36.
[12] Una ricostruzione della parabola di questa signoria dal punto di vista dell’evoluzione delle sue strutture di governo si legge nell’introduzione premessa da G. Ballardini agli Statuta Faventiae, I, Statuta civitatis Faventiae, cur. G. Rossini, Bologna 1929-1930 (Rerum Italicarum Scriptores, 2ª ed., t. 28.5), pp. X-LXVIII. Una sintetica ma efficace panoramica sull’avventura manfrediana è ancora in I. Lazzarini, Faenza, in Enciclopedia machiavelliana, dir. gen. G. Sasso, codir. G. Inglese, Roma 2014, pp. 519-21.
[13] FM LXX.
[14] Precisazioni ulteriori sulla possibile datazione del FM sono esposte nella sezione relativa al codice della Nota al testo di questo studio.
[15] Su Astorre II Manfredi si vedano P. Zama, I Manfredi, signori di Faenza, Faenza, 19693, pp. 195-224; G. Cattani, Politica e religione, in Faenza nell’età dei Manfredi, cur. A. Savioli, C. Moschini, Faenza, 1990, pp. 13-58: 26-30; I. Lazzarini, Manfredi, Astorgio, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXVIII, Roma 2007, ad vocem. Un divertente ritratto di Astorre nelle vesti del perfetto vir facetus rinascimentale è in S. Delli Arienti, Porretane, ed. B. Basile, Roma, nov. XXIII, pp. 188-193.
[16] P. Zama, I Manfredi, signori di Faenza cit., p. 207.
[17] Sulla Biblioteca della famiglia Manfredi si rinvia a A. R. Gentilini, La Biblioteca dei Manfredi signori di Faenza, in Faenza nell’età dei Manfredi cit., pp. 123-147; Ead., Stato delle ricerche sulla biblioteca dei Manfredi signori di Faenza, in Il dono di Malatesta Novello. Atti del convegno. Cesena, 21-23 marzo 2003, cur. L. Righetti, D. Savona, Cesena 2006, pp. 423-434; e Ead., Lacerti manfrediani nella biblioteca di Mattia Corvino. Una ricerca in fieri, in Nel segno del corvo. Libri e miniature della biblioteca di Mattia Corvino, pres. di N. Bono, G. Görgey, F. Sicilia, I. Monok, Modena 2008, pp. 95-103. Tra i codici della famiglia Manfredi la studiosa non segnala il ms. Nantes, Musées Départementaux de la Loire Atlantique, Musée Dobrée, 19, contenente il De arte venandi cum avibus di Federico II e altri scritti di falconeria, appartenuto, come rivela la nota di dedica a c. 14r, proprio ad Astorre II.
[18] A. Montevecchi, Cultura e corte manfrediana, in Faenza nell’età dei Manfredi cit., p. 110.
[19] Sull’umanesimo faentino imprescindibili restano le pagine di A. Campana, Civiltà umanistica faentina, in Il liceo Torricelli nel primo centenario della sua fondazione, Faenza 1963, pp. 295-346. Un’ottima sintesi è anche in A. Montevecchi, Cultura e corte manfrediana, in Faenza nell’età dei Manfredi cit., passim.
[20] Per i rapporti tra Astorre I e Franco Sacchetti si rinvia ancora A. Montevecchi, Cultura e corte manfrediana, in Faenza nell’età dei Manfredi cit., pp. 101-104.
[21] Cfr. Rime e prose del Buon secolo della lingua, cur. T. Bini, Lucca 1852, p. 42; e E. Jacoboni, Un manoscritto di antiche rime italiane, adespote e anepigrafe (Cod. Oliv. 912), «Studia Oliveriana», 4-5 (1956-1957), pp. 179-191: 184, con bibliografia.
[22] A. Campana, Civiltà umanistica faentina cit., p. 302; e A. Montevecchi, Cultura e corte manfrediana, in Faenza nell’età dei Manfredi cit., pp. 106-107. Si conservano, però, le sole lettere di Coluccio.
[23] La lettera si legge in Epistola amatoria di Astorre Manfredi principe di Faenza, ed. G. Ghinassi, «Atti e memorie della Regia Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna», 7 (1868), pp. 177-184. In realtà, essa risulta composta «a instantia» del Manfredi da un non meglio noto ser Brancha. Purtroppo, la sezione del manoscritto che la conservava è andata distrutta nel grave incendio che colpì la Regia Biblioteca Nazionale di Torino nel 1904. Andrà comunque sottolineato che il codice trasmetteva anche i volgarizzamenti del Dialogus de morte Antonini, filii sui, consolatorius di Giannozzo Manetti, e del De mulieribus claris dell’Albanzani.
[24] Lo Schedario Rossini (= SR) è liberamente consultabile in rete al sito della Biblioteca Manfrediana di Faenza: <http://manfrediana.comune.faenza.ra.it/index.php?option= com_content&view=article&id=58&Itemid=254>.
[25] Non sembrano essere infatti la stessa persona il nostro miniatore e quel Bartolomeo Nonni da Ferrara attestato a Faenza in due documenti del 1457 (cfr. SR, sogg. Ferrara e ferraresi, scheda n. 514). Ad arricchire il dossier dei legami tra il mondo dei legisti bolognesi e gli ambienti della cancelleria faentina dalla quale dovettero provenire parte dei materiali confluiti nel FM, va, infine notato che negli anni 1462-1463 podestà di Faenza furono due bolognesi, Francesco de’ Nobili e Giovanni Papazzoni (SR, sogg. Podestà, scheda n. 436).
[26] Sul codice, disponibile online all'indirizzo https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.4612, si veda P. Procaccioli, Bartolomeo Miniatore, Cristoforo Landino cit., pp. 441-448.
[27] I rapporti tra Giacomo e Bartolomeo Bolognini sono ricostruiti in I Bolognini: storia, genealogia e iconografia. Con cenni sulle famiglie Amorini e Salina, cur. G. Malvezzi-Campeggi, intr. di M. Fanti, Bologna 2016, pp. 54-56.
[28] Ivi, pp. 54-55.
[29] La notizia è in Inventario e spoglio dei registri della Tesoreria Apostolica di Perugia e Umbria, cur. L. Fumi, Perugia 1901, p. 58 (podesteria ricoperta dal 1° giugno 1447 all’aprile del 1448) e in G. Chironi, Il diplomatico Bichi Ruspoli (1311-1791), «Bullettino senese di storia patria», 105 (1998), pp. 310-395: 321.
[30] I Bolognini: storia, genealogia e iconografia cit., p. 54.
[31] SR, sogg. Bologna e bolognesi, scheda n. 164. Da I Bolognini: storia, genealogia e iconografia cit., p. 55, si apprende che la famiglia possedeva alcune saline a Cervia.
[32] S. Marchesi, Supplemento istorico dell’antica città di Forlì in cui si descrive la provincia di Romagna, Forlì 1678, p. 472. La cronaca ci informa, ancora, che «l’egreggio cavaliere Bartolomeo Bolognini», nel dicembre del 1455, si trovava in esilio a Forlì in quanto «ribelle de’ principi di Bologna» (p. 466). La notizia, riportata anche nel più antico testo di L. Cobelli, Cronache forlivesi: dalla fondazione della città sino all’anno 1498, ed. G. Carducci, E. Frati, Bologna 1874, p. 233, è confermata anche nel carteggio trasmesso in V sopra menzionato.
[33] In corso di pubblicazione è un’edizione per le cure di chi scrive del formulario per Giacomo Bolognini qui menzionato. Su tale raccolta, e sui codici che la trasmettono, si rinvia alla Nota al testo della presente edizione.
[34] La fama che Bartolomeo dové intrecciare a questa tipologia di raccolte fu probabilmente notevole, se si guarda al prestigio dei suoi committenti: tra essi figurano infatti illustri patrizi bolognesi quali Orso Orsi e Giacomo Bolognini, e potenti principi rinascimentali del calibro di Astorre Manfredi e Ercole d’Este. Per una panoramica sull’intera produzione trattatistica di Bartolomeo si rinvia a C. Amendola, Note sui formulari manoscritti e a stampa cit.
[35] «indizio prezioso per certificare la cultura antiquaria di cui Bartolomeo dovette essere portatore», si osserva in D. Guernelli, Qualche nota sulla miniatura bolognese cit., pp. 84-85 n. 56. L’immagine richiamava, forse, quella di un’infedele, essendo, quello, un frangente di rinnovati appelli alla crociata, invocata a gran voce da papa Pio II.
[36] Aggiunge ancora Guernelli che il miniatore, «con quella testa di armigero con elaborato elmo presente nel capolettera, si pone in perfetta sintonia con la moda all’antica quattrocentesca. In questo senso, il codice dell’Universitaria anticiperebbe addirittura la bellissima serie di analoghe teste, secondo Lilian Armstrong databili tra 1472 e 1475, prodotte da Marco Zoppo per l’edizione del De viris illustribus del Petrarca, stampato a Poiano il 1° ottobre 1475 da Felice Feliciano e Innocenzo Ziletto», ibid. Sull’incunabolo menzionato dallo studioso si veda C. Amendola, Francesco Petrarca De viris illustribus [trad. it. Donato degli Albanzani], Poiano, Felix Antiquarius et Innocens Ziletus, 1° Oct. 1476 (Liège, Bibliothèque Alpha, XV.B181), disponibile online al sito <http://hdl.handle.net/2268.1/2334>.
[37] Traggo l’espressione, traducendola, dal recente saggio di I. Lazzarini, L’humanisme au quotidien. Écrits et écritures de chancellerie dans l’Italie septentrionale (XVe siècle), in L’Humanisme au pouvoir? cit., pp. 131-51. Nello studio, volto a «chercher […] les traces quotidiennes de la reformulation humaniste des langages de chancellerie dans plusieurs domaines liés à la communication» (p. 133), viene preso in esame un registro in pergamena contenente «une série de traités de paix et d’alliances et d’accords de ligue à partir de la paix de Ferrare en 1433» (p. 140) fatto realizzare nel 1466 da Cicco Simonetta per il nuovo duca Galeazzo Maria (Archivio di Stato di Milano, AS, Registri Ducali 39 = RD 39). A differenza del formulario oggetto di queste pagine, e benché «l’ensemble du matériel (parchemin), de l’écriture et de la mise en texte témoigne d’un choix stylistique et graphique délibéré et vise à attribuer au discours politique et diplomatique un ton “haut”», il RD 39 resta uno strumento di cancelleria destinato a un uso frequente e concreto.
[38] FM III.
[39] Corretta l’intuizione esposta in D. Guernelli, Qualche nota sulla miniatura bolognese cit., p. 84 n. 56, dove, sulla base solo di documenti d’archivio, viene attribuita a Orsolina, moglie di Bartolomeo Miniatore, questa epistola non firmata. La medesima lettera, infatti, è anche nella raccolta cinquecentesca, ma opera ancora del nostro Bartolomeo, intitolata Delle littere missive alli suoi principi. Raro esemplare antico novamente da Michel Angelo Biondo illustrato, in Vinegia 1552, ignota allo studioso, indirizzata Ex Bononia allo Illustrissimo ducali D. dalla Servula Ursolina Ferrariensis, che la sottoscrive (n. 21, c. d2r-d2v). Per la numerazione dei modelli delle altre raccolte attribuibili a Bartolomeo cui si fa riferimento in questo studio si rinvia a quella stabilita nell’Elenco degli incipit e indice delle concordanze fornito in C. Amendola, Le “artes dictandi” di Bartolomeo Miniatore da Ferrara cit., pp. 301-351. Sul libretto stampato dal Biondo si rinvia alla Nota al testo di questo lavoro.
[40] Consone al discorso che stiamo qui affrontando sembrano le riflessioni sul rapporto tra parola e potere che si leggono in E. Artifoni, I podestà professionali e la fondazione retorica della politica comunale, «Quaderni storici», 63 (3), 21 (1986), pp. 687-719: 687: «Chi domina […] è investito del diritto/dovere di parlare, di far penetrare nella società in modo diretto o con la mediazione di un apparato la parola legittima; e d’altro canto, possedere la parola significa possedere il principale strumento di fondazione di ogni pratica politica, il modo per argomentare sul piano suggestivo o persuasivo ogni discorso di legittimazione dell’autorità». Sulla rielaborazione umanistica del tema tradizionale della retorica intesa come “forza civilizzatrice” si veda A. Battistini - E. Raimondi, Le figure della retorica cit., pp. 75-80. Sulle idee circolanti presso gli ambienti e negli anni in cui scriveva Miniatore sul tema della necessità, per il potere, di una piena legittimità popolare da raggiungersi non con lo strumento della paura ma mirando alla benevolenza dei propri sudditi, preziosa appare la testimonianza offerta da una lettera “de principe” inviata da Borso d’Este ad Alfonso d’Aragona: «Le forteze deli stati consisteno, sequondo nui, principalmente in lo amore deli subditi, et de questo se ne vede mile exempli et experiente; et, e converso, el disfacimento deli Stati et divixione de quigli è non havere lo amore deli subditi». La lettera è integralmente trascritta in T. Matarrese, Sulla lingua volgare della diplomazia estense. Un memoriale ad Alfonso d’Aragona, «Schifanoia», 5 (1988), pp. 51-77 (il passo cit. è a p. 67). La benevolenza dei sudditi nei confronti di Astorre, tuttavia, non dovette essere realmente tale (o perlomeno non dovette essere condivisa dal popolo in toto), visto che, nella cittadina, l’11 e il 12 maggio 1460, data di poco anteriore a quella della composizione della nostra operetta, «era scoppiato […] un grave tumulto contro i signori del governo, ed il popolo era corso in piazza assalendo l’ufficio della “gabellina” e del “danno dato”, dove aveva stracciato i libri delle tassazioni». Il passo è tratto da P. Zama, I Manfredi cit., p. 213. Entrambi gli uffici ricordati da Zama, non erano, però – o, almeno, non ufficialmente – sotto la diretta responsabilità di Astorre.
[41] Erano, quelli, anni di cruenti scontri tra Astorre e Taddeo Manfredi, che si contendevano il controllo di Imola. Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1460 Taddeo, con l’appoggio di truppe sforzesche, era addirittura arrivato alle porte di Faenza. Si comprenderà, dunque, l’importanza del legame tra giustizia e rappresentazione esterna del dominio, legame per altro affermato con chiarezza nella prima lettera di grazia nella raccolta: «Continuamente quilli che hano in le loro petitione buona iustificatione sono favoriti e aiutati da quisti magnifici signori e dagli altri regimenti, come è cosa debita et conveniente. Ma quando d’altri fano petitione contra la vera iustitia et honesto vivere, non debbono pigliare admiratione se gli prenominati signori non se inclina a compiacerli, perché facendolo è contra iustitia e se daria molti mali exempli de peccare, e condurianse le citade in latrocinii e mille altri assissinamenti, e gli vicini e malivoli nostri mormorariano iustamente dela nostra iniustitia» (FM VI.1-2).
[42] Chronica breviora aliaque monumenta Faventina a Bernardino Azzurrinio collecta, ed. A. Misseri, Città di Castello, 1905-1921 (Rerum Italicarum Scriptores, 2ª ed., t. 28.3), p. 262, dalla quale sono tratte anche le citazioni che seguiranno.
[43] G. Ballardini, Introduzione, in Statuta Faventiae cit., pp. XLIX-L.
[44] FM LXXVIII.7.
[45] In tale supplica il signore è chiamato a intervenire in una sottile questione di gerarchia delle fonti. Nel dettaglio, il querelante domanda di essere liberato dalla richiesta di restituzione di un prestito in realtà già saldato, allegando in suo favore un atto notarile e le dichiarazioni di un testimone fededegno. Tuttavia, egli si dimostra consapevole di poter perdere la causa, opponendo il suo avversario il libro mastro del defunto padre, al quale libro, secondo gli ordini cittadini, era conferito un maggiore valore probante. Il signore ribadisce la validità di tale norma, affermando che «quando son ben accordate le scripture e le poste del suo ricordo [cioè del mercante] e del zornale cum quelle del libro grande cum quilli debiti modi e circumstantie che tra veri e boni mercatanti se richiede, se gli presta piena et intiera fede, che altramente la mercatantia e ’l gran trafigo non havria luoco e tosto mancharia, e andariano le citade in perditione» (FM XVII.3). Al contempo, il signore rileva una certa rigidità della norma, non potendo soprassedere del tutto all’instrumentum presentato dal querelante. Per tali ragioni, domanda alle parti di depositare le rispettive prove, così da poter procedere a una più serena examinatio.
[46] Non in tutti i modelli sono riportate le motivazioni della supplica. I casi qui registrati si riferiscono ovviamente soltanto a quelli nei quali esse sono esplicitate
[47] È evidente che, tra le varie funzioni delle suppliche trasmesse dal FM, vi è anche quella di rinsaldare vincoli di solidarietà e appartenenza politica. Sul tema dei legami di “affinità” e di fazione nel cosmo cortigiano si veda I. Lazzarini, Amicizia e potere. Reti politiche e sociali nell’Italia medievale, Milano 2010.
[48] È stato osservato come attraverso tale processo di pauperizzazione, nel quale si riconosce una radice ideologica fondamentale della costruzione dell’immagine del potere signorile, «i sudditi accettano una figura del dominus che è disegnato dalla loro stessa richiesta […]. Per ottenere la grazia i sudditi richiedenti devono “diventare poveri”, mostrarsi umili e deboli, sollecitare del dominus la sua capacità più “sovrana”, la protezione dei miserabili». Il passo è tratto da M. Vallerani, La supplica al signore e il potere della misericordia cit., p. 431.
[49] Ivi, p. 411.
[50] Nel dettaglio, «con la supplica venivano sottoposte al signore richieste di grazia, sollecitazioni di interventi in liti e vertenze, denunce di abusi di negligenze di officiali e giurisdicenti. Il supplicante si appellava alla grazia e al favore del principe, all’arbitrio e alla discrezionalità riservata alla suprema autorità politica, e chiedeva eccezioni o sospensioni di atti all’interno di lunghi ed esuberanti sviluppi di cause forensi; oppure chiedeva di sbloccare l’esecuzione di sentenze e decisioni, ostacolata da soprusi di avversari o solo da intoppi burocratici. Chiedeva, talvolta, deroghe a provvedimenti e ordinamenti vigenti, di emanazione cittadina o ducale, stabiliti dalla consuetudine o da norme particolari di corpi e collegi. In alcuni casi le suppliche erano propriamente forme di impugnazione di atti giudiziari intermedi o definitivi». Il passo è in N. Covini, La trattazione delle suppliche nella cancelleria sforzesca: da Francesco Sforza a Ludovico il Moro, in Suppliche e “gravamina” cit., p. 108.
[51] Ancora Vallerani, in merito alle suppliche da lui prese in esame, ha parlato di «tenore seccamente burocratico» notando inoltre come, anche in esempi precedenti, nel tempo di Bonifacio VIII, domini in questo genere «una scarsa propensione alla retorica». Il passo è in Id., La supplica al signore e il potere della misericordia cit., p. 415. L’osservazione pare trovare conferma nei materiali quattrocenteschi studiati da Covini: «la supplica è uno scritto più formale della lettera – osserva la studiosa –, stilata secondo regole e forme espressive piuttosto rigide […]. Anche la più semplice e banale delle petizioni, tendente ad accelerare una pratica, ottenere una proroga, un minimo interessamento del principe o un piccolo privilegio, non era una forma libera di comunicazione e di scrittura: la supplica è l’antenato del modulo burocratico, non una forma di scrittura spontanea». Il passo cit. è in Ead., Scrivere al principe. Il carteggio interno sforzesco e la storia documentaria delle istituzioni cit., p. 11. Poco oltre la studiosa, sottolineando la maggiore libertà inventiva dell’epistola che la rende «difficilmente inquadrabile nei tradizionali schemi di analisi del documento perché attinge comunque a una dimensione privata», intravede nella supplica una «prima forma di modulistica d’ufficio» (p. 13).
[52] Che l’eloquenza debba essere ispirata dalla sapienza e mirare al conseguimento della armonia sociale risulta chiaro dalla risposta che Astorre invia a un tale che, con una elegante supplica, aveva impetrato la grazia per un amico reo di omicidio: «molto meglio e più salutifero soccorso seria stato al mio iuditio – rimprovera l’indispettito signore al petitore – che questi vostri sottili argomenti voi li havesti usati cum ogni cautela ad extinguere prima fra loro la già inveterata et accesa inimicitia, la quale a voi e a tutta la terra era nota e famosa, raducendoli a qualche bona concordia e humana pace. E così ad un medesmo tempo haverestino salvato del’uno e del’altro l’honore e la vita» (FM XLIX.3-4).
[53] FM XIV.1-5.
[54] FM XV.1-4.